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Riflessioni Sulla Possibilita’ Di Un Trattamento Per Minori Vittime Di Abuso
- luglio 11, 2016
- Posted by: ggimmyy
- Category: Abusi Sessuali
Un’ulteriore resistenza all’ascolto dell’abuso deriva dalla difficoltà di “so-pportare” il carico emozionale attivato in chi si trova ad accogliere l’esperienza del bambino e dalla fatica di “su-pportare” in maniera adeguata la vittima. Difatti, la necessità di difendersi dal dolore e dall’impotenza vissute dal minore e l’esigenza di gestire l’ansia e l’angoscia conseguenti alla rilevazione del maltrattamento generano un vissuto di confusione e di smarrimento che si cerca di evitare.
Tale disorientamento è comune non soltanto a coloro che, quotidianamente, sono in contatto con il bambino ( parenti, vicini, insegnanti ect…) ma anche a quanti, come giuristi e operatori sociali, si occupano della tutela e del sostegno ai minori.
Oltre l’impasse emotivo, che può ridurre la capacità di ascolto del bambino abusato, negli operatori sono presenti incertezze, dubbi e ripensamenti circa la “cosa giusta da fare”, poiché la paura è quella di sbagliare e di incolpare famiglie o persone in maniera ingiusta. Queste preoccupazioni sono un ostacolo all’azione e bloccano l’attuazione di provvedimenti che invece andrebbero eseguiti tempestivamente, date le pesanti conseguenze dell’abuso.
Per la vittima l’abuso è un trauma, una ferita che lacera e lascia dentro di sé tracce indelebili, che comportano profonde fratture nel mondo interiore e che intaccano le capacità di adattamento dell’Io, rompendo l’equilibrio con il mondo esterno (Rossi, Palaia, 1997).
Il trauma sconvolge l’individuo, scatenando sentimenti intensi quali dolore, paura, rabbia, impotenza, che non riescono ad essere elaborati ed espressi, perché l’esperienza che sopraggiunge improvvisa sovrasta la vittima indifesa. Il trauma allora diventa una cisti, un corpo estraneo che la mente non assorbe, non riconosce come appartenente all’esperienza già immagazzinata, perché il materiale di cui è costituito è fatto di impotenza, di eccitazione non padroneggiabile, di vergogna, di dolore e odio, che la mente fa di tutto per respingere, per isolare, per allontanare (Foti, 2003).
Il bambino abusato perde il controllo sulla realtà carica di una violenza che non riesce a fermare e alla quale non riesce a reagire se non attivando meccanismi difensivi primariamente di rimozione, di distacco emotivo, di razionalizzazione, di scissione e, secondariamente, di identificazione proiettiva (Laplanche e Pontalis, 1967). Quando l’abuso si verifica all’interno di una relazione significativa, come nei casi di violenza intrafamiliare, il bambino attua una profonda scissione, attribuendo a se stesso aspetti totalmente negativi e all’abusante aspetti positivi. Il perpetrarsi di un tale meccanismo di difesa costituisce una minaccia all’immagine di sé, che verrà progressivamente svalutata, poiché il bambino si percepirà sempre più come disgustoso, colpevole, sporco e cattivo, anche per preservare il legame familiare. L’attribuzione di aspetti negativi a se stessi, infatti, permette la negazione della violenza dell’abusante, del quale si giustifica il comportamento perverso, visto come l’unico modo di mettersi in relazione con una persona così “disgustosa e sporca”.
L’atto violento si trasmuta, così, in un atto d’amore, per il bisogno di sentirsi amato, per la necessità di mantenere il legame di attaccamento (Bowlby,1969) con l’adulto significativo.
Nell’abuso il mondo dei significati è capovolto, sia perché i bambini abusati sono portati a credere che quanto da loro subito sia una manifestazione di amore e sia perché sperimentano un rovesciamento dei ruoli, diventando partner del genitore e non più figli. D’altro canto, la piccola vittima vive in un clima dove l’eccitazione sessuale si alterna all’angoscia, alla colpa e all’ingiunzione a tacere e, dunque, alla confusione. Tutti questi elementi accompagnano la messa in atto dell’abuso e tendono a garantirne la perpetuazione, contrastando il bisogno e la possibilità del bambino di rivelare l’abuso.
Il bambino abusato avrà come ulteriore conseguenza la difficoltà a stabilire e a mantenere le relazioni interpersonali nonché la mancanza di fiducia in sé e negli altri. In questa dimensione, caratterizzata dalla strumentalizzazione psicologica e fisica da parte dell’adulto, è del tutto assente una comunicazione piena ed autentica fra il bambino e altre figure di riferimento.
2 Presupposti per il trattamento della vittima di abuso sessuale infantile
“ […] la risposta di aiuto ad un minore vittima di abuso sessuale è una risposta complessa, dove lo spazio del lavoro psicologico rappresenta un frammento del percorso di aiuto che deve essere attivato e che deve vedere interagire in modo coordinato più istituzioni, ognuna portatrice di compiti e linguaggi diversi”.
E’ impensabile attivare un percorso riparativo con le piccole vittime se prima non si spezza la catena di abusi subiti, che potrebbe continuare a perpetrarsi; di conseguenza l’operatore che riceve la rivelazione ha il dovere di chiedere alle istituzioni un’adeguata tutela e protezione del minore attraverso il suo allontanamento fisico dall’abusante. Quindi dopo la rivelazione degli eventi, la prima importante forma di intervento consiste proprio nell’interruzione dell’abuso (Dettore, Fuligni, 1999). Ad un minore abusato deve essere assicurata non soltanto la “cura”, ma anche la “giusta protezione” che si può garantire soltanto con l’ingresso del bambino nel procedimento penale. Quest’ultimo, infatti, può figurarsi come un percorso riparativo nella misura in cui riesce a garantire al bambino il giusto riconoscimento del suo dolore, a sostenerlo nell’identificazione di se stesso in quanto vittima, a sollevarlo dai sensi di colpa attribuendo la responsabilità dell’accaduto all’adulto abusante. “La letteratura in ambito psicologico ed una consolidata prassi sostengono che solo in una situazione protetta è possibile capire, valutare e poi curare il danno prodotto dalla situazione abusiva” .
Ciò comporta una indispensabile integrazione tra l’ambito giudiziario e quello clinico, affinché possa compiersi l’attività clinica di aiuto e di rielaborazione del trauma (Malacrea, 1998).
Un primo passo da compiere dopo lo svelamento è la valutazione delle risorse intra ed extra-familiari sulle quali fare affidamento, affinché il bambino possa continuare il proprio cammino di crescita. E’ fondamentale individuare adulti “protettivi”, capaci di garantire un clima contenitivo, stabile ed affettivo, in attesa che un successivo lavoro psicologico possa ancor più aiutare la vittima nel suo bisogno e nella sua necessità di riparazione.
Per adulti protettivi si intendono quegli individui su cui è realistico contare, come membri della famiglia o operatori sociali, poiché in grado di provvedere ad una immediata e duratura tutela del minore e capaci di confrontarsi con il trauma avvenuto e con le sue conseguenze.
Non basta interrompere la violenza ed illudersi che il tempo cancelli il ricordo dell’evento doloroso e traumatico, ma, per garantire un futuro al minore abusato, occorre offrirgli la possibilità di riattraversare il passato con il sostegno di un “ascoltatore empatico”, disponibile a rielaborare con lui l’esperienza traumatica, al fine di evitare che gravi vissuti non elaborati possano sfociare, anche a distanza di anni, in disagi, sintomi e comportamenti post-traumatici (Welldon, 2003).
3 Tipologie di intervento nei casi di abuso sessuale infantile
“ Come obiettivi del lavoro terapeutico possono essere focalizzati: il riconoscimento della realtà dei fatti e il permettere alla vittima di ritrovare il corso della sua evoluzione psichica interna” . Un intervento curativo deve mitigare il costruirsi nel bambino di difese psicologiche rigide ed invalidanti il suo futuro sviluppo personale. Questo intervento di “riparazione” ( Malacrea, 1998) deve essere iniziato il più presto possibile, ma prima è necessario compiere un’esperienza correttiva sulla visione che ha il minore abusato del mondo che lo circonda: cioè è necessario fargli capire che l’esperienza traumatica vissuta non coincide con le “normali” esperienze che un soggetto della sua età di solito vive. La psicoterapia individuale per la vittima, unita alla psicoterapia familiare, costituisce uno dei possibili approcci curativi, condiviso da diversi autori (Druenne, 1995; Malacrea, 1998; Montecchi, 1998). Nonostante tali percorsi terapeutici si svolgano a volte in un contesto di coazione (Castellani, 1997), ossia vengano avviati a seguito di un procedimento penale disposto dagli organi giudiziari, essi possono ugualmente rappresentare una opportunità per far emergere ed elaborare vissuti personali e disfunzioni familiari.
Un percorso terapeutico rivolto all’intero nucleo familiare del bambino abusato può essere difficile da intraprendere per una serie di difficoltà ed ostacoli. Nei casi di abuso extrafamiliare le famiglie spesso tendono a sovrainvestire gli organi giudiziari, perché ritenuti in grado di “vendicarle”, tralasciando le conseguenze psicologiche della violenza. Per questo motivo, esse minimizzano o rifiutano un intervento psicologico in grado di riparare la ferita provocata dal trauma. Anche nei casi di abuso intrafamiliare può verificarsi il rifiuto del sostegno terapeutico; in questi casi, non resta che attuare un intervento di “ controllo”, come l’allontanamento dell’abusante o del minore dalla famiglia, l’affido intrafamiliare e/o preadottivo extrafamiliare, piuttosto che un intervento “riparativo”.
Tuttavia, gli interventi sociali e quelli giudiziari non generano gli stessi cambiamenti che potrebbero verificarsi attraverso il trattamento della famiglia abusante. Privilegiare un’ ottica di riscatto piuttosto che una logica di criminalizzazione permette di recuperare, laddove possibile, il nucleo familiare ed evitare rotture e perdite che esporrebbero il bambino ad ulteriori esperienze traumatiche (Tortolani, 1998).
Obiettivi del trattamento familiare sono principalmente quelli di svelare i giochi “interattivi” all’interno della famiglia, così da trasformare i legami relazionali e i patterns comunicativi (Selvini Palazzoli, Cirillo et. al., 1988).
Il trattamento della vittima dovrebbe aiutare il bambino a rimettere ordine nell’esperienza vissuta, riallineando i significati stravolti dall’abuso, ristrutturando l’identità violata e dando un senso ai sentimenti provati. Tuttavia, il solo intervento clinico e terapeutico risulta insufficiente nella cura di minori vittime di abuso sessuale; il sostegno psicologico, infatti, deve combinarsi con esperienze correttive fuori dalla stanza del terapeuta. Quindi, occorre procedere su un doppio binario, operando, allo stesso tempo, sul mondo interno, psicologico e sul mondo esterno, sociale.
La terapia individuale della vittima, secondo Malacrea (1994, 1998) dovrebbe seguire una serie di tappe:
I. definizione del problema;
II. prendere contatto con il mondo interno;
III. attacco ai processi di negazione;
IV. la rivelazione;
V. rilettura del trauma e riattribuzione di ruoli, responsabilità e colpe;
VI. riparazione.
Un terapeuta che entra in contatto con il mondo interno del bambino affronta sentimenti complessi e meccanismi difensivi molto rigidi.
La resistenza a parlare dell’abuso subito porta spesso i bambini ad un silenzio “ostile”, determinato, non solo da sentimenti di vergogna, paura e diffidenza, ma anche da una rimozione che investe la psiche delle piccole vittime in profondità.
I bambini tendono a difendere l’immagine interna di un genitore “sufficientemente buono” (Winnicott, 1971), negando la sua parte violenta e abusante, così da rivolgere la rabbia su di sé o sugli altri. Tale scissione affettiva da un lato preserva la figura di attaccamento, dall’altro addossa la parte “cattiva” ai piccoli, i quali deducono che non sono amati perché non sono buoni. Ciò comporta un senso di colpa devastante, per cui i bambini si sentono responsabili dell’accaduto e si convincono che quanto successo sia giusto. Senza un trattamento idoneo, un vissuto così svalutante potrà esporre il bambino a fallimenti continui dovuti al sentimento di vulnerabilità. Come conseguenza a lungo termine, per far fronte a simili vissuti depressivi, il bambino potrà strutturare rigidamente il meccanismo di difesa di identificazione con l’aggressore, assumendo comportamenti maniacali sempre più aggressivi, fino a ripetere da adulti il modello violento subito, diventando genitori abusanti (Cirillo, Di Blasio, 1989).
Alla luce di quanto finora detto, possiamo definire come scopo principale della terapia quello di aiutare il bambino abusato a sviluppare la consapevolezza di essere vittima e non responsabile dell’accaduto. La confusione di ruolo, caratteristica di tali situazioni traumatiche, può costituire un ostacolo al superamento del senso di colpa del bambino, che origina dal sospetto di essere stato egli stesso, con il suo comportamento, a provocare o a non rifiutare il rapporto sessuale (Roccia, Foti, 1994).
Il minore potrà così avere la possibilità di ricostruirsi un’integrità e un’identità svincolata dal ruolo di vittima.
4 Fasi e compiti del trattamento
Il primo passo da compiere per l’avvio al trattamento consiste nell’informare il bambino sugli obiettivi della cura, per non creare false aspettative conseguenti alle eventuali fantasie distorte che possono emergere in tale situazione. Il terapeuta dovrebbe introdurre il tema dell’abuso, spiegando che il suo compito è quello di ascoltare i bambini che hanno subito un trauma simile, sottolineando come il parlare dell’accaduto sia difficile per tutti.
Il setting terapeutico è una premessa necessaria al trattamento, poiché bisogna garantire un clima di sicurezza e di prevedibilità attraverso la costanza del luogo, dei giorni e degli orari e di alcuni “rituali”, come l’iniziare e il terminare dell’incontro con un disegno del bambino.
Il comportamento del terapeuta dovrebbe tener conto dei vissuti ansiogeni che potrebbero originare da un “contatto fisico”, anche dal più “naturale”, come una carezza, perché il bambino potrebbe intenderlo come una “proposta sessuale”. Il bambino viene messo quindi nelle condizioni di scegliere quando e come stabilire un contatto corporeo con il terapeuta nel corso della terapia.
In un fase più avanzata del trattamento, il minore tende a replicare la stessa dinamica inconscia messa in atto durante l’abuso. Difatti, il terapeuta viene vissuto dapprima come “buono” e da compiacere, al pari del genitore nella fantasia riparatoria, poi, come “cattivo”e da aggredire, non appena si mostra non più totalmente disponibile come il bambino pretenderebbe. La scissione che durante l’abuso ha permesso di conservare l’immagine positiva del genitore a scapito dell’immagine della vittima, divenuta “totalmente negativa”, viene ora traslata nella relazione con il terapeuta, la cui immagine sarà anch’essa scissa. Lo psicoterapeuta deve resistere agli “attacchi” del bambino e utilizzarli come un’opportunità per spronarlo ad esprimere la rabbia, il risentimento, il dolore e la frustrazione.
La possibilità di manifestare le emozioni, di essere aiutato a dar loro un nome e a indirizzarle verso i responsabili dell’abuso, è per bambino un modo per attribuire le reali colpe, riordinare i significati capovolti ed evitare dannose autocolpevolizzazioni.
Questo processo di “svelamento emozionale” dovrebbe avvenire gradualmente, poiché la rabbia aiuta il bambino a difendersi da tutte quelle forti emozioni difficili da gestire, come la tristezza, i vissuti depressivi per la perdita delle figure di riferimento e il senso di colpa nel sentirsi responsabile di tale perdita. Questo aspetto del lavoro terapeutico è centrale, soprattutto perché lo scopo del trattamento non è dimenticare l’evento traumatico ma elaborarlo, per imparare a convivere con esso senza esserne sopraffatti e totalmente condizionati nella vita futura.
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