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Riflessioni Sul Trauma Dell’ Abuso Sessuale E Sulla Testimonianzadel Minore Nella Forma Dell’ Audizione Protetta
- luglio 11, 2016
- Posted by: ggimmyy
- Category: Abusi Sessuali
Questa precisazione richiama una seconda osservazione che ridefinisce il confine tra maltrattamento e disagio psichico, qui inteso come esperienza di sofferenza e carenza sia isolate che sistematiche e continuative che coinvolgono il minore.
Al riguardo la Scabini osserva che non è sufficiente che un bambino non sia maltrattato per essere felice, richiamando l’attenzione sul fatto che la puntualità delle segnalazioni e delle denunce sul fenomeno, non devono esimerci dall’impegno a sviluppare più positivi e costruttivi modelli di vita e stili interattivi che tutelino in maniera efficace l’infanzia.
E’ quanto emerge anche nel pensiero di Claudio Foti (1992) e nei suoi rilievi sul tema, relativi all’osservazione che nella collettività il trattamento riservato ai bambini rappresenta un indice significativo del grado di civiltà raggiunto dalla Società.
Ripercorrendo il discorso sul maltrattamento, una prima distinzione va fatta tra quello fisico, che comprende la violenza intenzionale, l’eccesso di punizioni corporali, la mancata risposta ai bisogni primari del bambino e quello psicologico che si esplicita in un corredo di comportamenti che attentano al suo sviluppo cognitivo, emotivo-affettivo, psicologico e relazionale con gravi esiti per le sorti dello sviluppo.
In tale filone, ampiamente documentato e descritto in letteratura, rientra una forma specifica di maltrattamento: l’abuso sessuale.
E’ opportuno innanzitutto mettere in luce che in tutte le forme di maltrattamento, ritroviamo una dinamica comune nell’interazione adulto-bambino che è possibile sintetizzare nell’osservazione che quest’ultimo non è stato rispettato per l’incapacità dell’adulto di pensare adeguatamente a lui ed ai suoi bisogni.
Questa incapacità produce l’instaurarsi di legami distorti, disfunzionali e perciò traumatici che permangono come tracce indelebili nella sua storia costellandola di vere e proprie ferite.
Autori come Kempe (1997) definiscono l’abuso sessuale come: “ Il coinvolgimento di bambini ed adolescenti ancora dipendenti ed immaturi per quanto riguarda lo sviluppo mentale in attività sessuali che essi non comprendono completamente, verso le quali essi sono incapaci di esprimere un loro consenso, o che violano i tabù sociali dei ruoli familiari”., delineando un panorama ampio ed articolato che, invece, per la Legge si configura più circoscritto e riguarda accertate pratiche sessuali consumate ai danni di un minori.
Si tratta di operazioni che, nella maggior parte dei casi, avvengono senza aggressione, in cui gli ingredienti della seduzione, fascinazione ed imbroglio, formano la cornice di uno scenario inquietante intriso di una violenza sotterranea e silenziosa.
L’abusante prepara ed approfondisce lentamente il legame con il bambino utilizzando principalmente la sua dipendenza fisica ed emotiva; egli gioca con arguzia la sua parte in una relazione sempre significativa ed importante per la vittima.
Infatti, anche nei casi di abuso extrafamiliare, chi coinvolge il bambino in esperienze traumatiche, è solitamente una figura di rilievo affettivo che riscuote fiducia e credibilità.
Su questo palcoscenico, in cui immagine e rappresentazione dell’altro si scollano dalla realtà effettiva di azioni ed intenzionalità, si consumano interazioni impossibili ed inimmaginabili, come ben rileva la Chasseguet-Smirgel (1987).
L’autrice, delineando la perversione con rimandi che vanno oltre il comportamento sessuale anomalo, la rappresenta nel suo significato di esperienza in cui vengono erosi i confini del possibile.
Scrive al riguardo Claudio Foti : “La perversione è una modalità per assumere una posizione di controllo onnipotente su un’altra persona, per negare la propria debolezza e la propria bisognosità. I bambini si prestano per la loro infermità e malleabilità a relazioni perverse e strumentali. La sessualizzazione perversa è una tendenza trasformare la persona in cosa, inseguendo l’eccitazione e il godimento sessuale per riempire la solitudine, la mancanza, la sofferenza mentale, senza tener assolutamente in considerazione se il partner sessuale sia in grado o meno di gestire il rapporto, se il rapporto sessuale avrà conseguenze positive o distruttive per l’oggetto sessuale”.
L’abusante scandisce con cura le tappe della sua relazione con l’altro, dove insinua la sottile violenza del suo potere psicologico tessendo una trama di interazioni predominate dalla seduzione e dall’adescamento.
Egli è particolarmente capace di far nascere nell’altro l’idea di essere un oggetto privilegiato ed alimenta questa convinzione con complimenti, adulazioni e riconoscimenti continui che accrescono nel bambino la certezza di essere stata preferito tra tutti.
Campbell, (2000), riflettendo sulla personalità dell’abusante, osserva che questi è particolarmente esperto di empatia, nel senso che conosce e riconosce i bisogni dell’altro e sa immedesimarsi fino in fondo nel mondo interno della vittima designata.
Accade così che in tempi brevi lo spazio relazionale si arricchisce di condivisioni, di giochi, di esperienze ed interessi comuni : inizia uno strano e potente legame infarcito di messaggi allettanti che imbrogliano il bambino e gli fanno perdere la connessione tra i comportamenti dell’altro ed il loro significato cognitivo ed affettivo.
L’imbroglio altera nella vittima i confini reali del campo intersoggettivo che diventa incomprensibile, misterioso e soprattutto denso di confusioni, in parte legate alla stessa particolare dinamica interpersonale che si è creata con l’adulto.
La presenza dell’altro è una minaccia o no? C’è o non c’è? E’ vero o falso ciò che succede? Quello che accade nella relazione, fa parte di un gioco che diverte o rappresenta un’esperienza strana e diversa da quelle che il bambino ha finora sperimentato?
Confusione ed ambiguità, imprigionano il bambino nel doppio livello di vero-non vero, giusto-non-giusto e contribuiscono a creare un’ intricata matassa di ambivalenze emozionali superiori alle sue capacità interne di gestirle.
I contenuti di pensiero ed i dubbi che si alternano in lui, distorcono la percezione della realtà, confondono i toni, evocano intense angosce.
In questa sorta di scomposizione prismatica il sentimento del reale si trasforma in qualcosa di indecifrabile, di alterato e di estraneo e può confermargli la convinzione di essere lui stesso responsabile di tale sovvertimento.
In questa atmosfera sfuma e perde forza il potere consolatorio della fantasia di imago protettive e sicure a contatto di una realtà, che per continuare ad esistere, può solo imboccare la strada della scissione e della deformazione.
I danni per lo sviluppo si riversano su vari versanti evolutivi: la prima funzione psichica compromessa è il pensiero che sembra svuotarsi della dimensione temporo-spaziale ed incapace di ordinare, distinguere e simbolizzare. (C.Foti 1995)
Il segreto, che nasconde e perpetua l’abuso, è collegabile a questo tessuto di confusioni che pervadono i canali della cognizione ed impediscono al bambino inizialmente di attribuire connotati critici a chi nel quotidiano riveste il ruolo di persona benevola e significativa e a sperimentare rabbia e risentimento verso l’esterno
E’ quasi inevitabile, invece, che la vittima trasferisca su di sé valenze negative e ritorca le emozioni contro se stesso, sentendosi tra l’altro colpevole di aver dubitato della bontà dell’adulto; di frequente si ammala per bonificare l’immagine negativa che prende forma dentro di lui. (F. Montecchi 1994)
Spesso, nell’estremo bisogno di negare ed annullare la realtà di ciò che ha vissuto, il bambino può difendere l’abusante nel disperato tentativo di confinare e relegare nel silenzio, anche quella parte di se stesso che ha subito il fascino della particolare interazione con l’adulto. (C. Foti 1995)
Questa fascinazione, caratterizzata da curiosità, fantasia, attrazione dell’ignoto, è il nucleo del Segreto nel segreto di cui parla Claudio Foti, che alimenta nella vittima sentimenti di intensa colpevolezza, angoscia e vergogna di difficile elaborazione.
Molti bambini, infatti, per i sentimenti, le emozioni ed i pensieri da cui si sentono invasi, si percepiscono come attivatori dei comportamenti dell’adulto, convinzione che amplifica vissuti di avvilimento e deprezzamento.
Marta di quattordici anni, ripetutamente abusata dal padre, rievoca con angoscia e con toni sommessi il segreto di amare vicende legate alla relazione con lui, rimarcando la sua responsabilità nell’avergli indotto atteggiamenti seduttivi, provocandolo con le sue richieste affettive e con la curiosità-sorpresa di voler sperimentare fino in fondo gli esiti e gli sviluppi dell’interazione con la figura paterna.
Sperimentare questi sentimenti impedisce di rivelare ad altri ciò che accade che, essendo inconfessabile, rimane custodito come in una intoccabile cripta: il bambino abusato, infatti, è immerso in una solitudine sconfinata e non porta dentro di sé la speranza di un adulto che può consolarlo ed a cui confidare il suo dramma.
Al contrario, si sente sfiduciato anche verso se stesso, giudicando inaccettabili ed inenarrabili per chiunque, le emozioni provate in un’esperienza di cui è stato protagonista.
Perciò, non riesce a chiedere conforto e sostegno, in quanto attribuendosi la colpa, sente di meritare la sua solitudine
Di qui la necessità di argini protettivi fuori e dentro di lui, in quanto nel suo interno circolano pensieri e sensazioni angosciose che minano la stabilità del sé. (F. Montecchi 1994).
Prigioniero di emozioni inconfessabili e non condivisibili, egli è come paralizzato e la sua stasi emozionale si riversa su tutti i piani dello sviluppo; di frequente è considerato un ritardato a causa delle sue scarse prestazioni scolastiche.
Non ci soffermeremo, nell’ambito di questo lavoro, sui numerosi indicatori post-traumatici, quali segnali di disagio e testimoni della sua reazione al trauma, osservando solo che, per quanto segnali aspecifici, la loro presenza, impone serie considerazioni sul significato di una sofferenza che va accuratamente riesaminata e ripercorsa.
Infatti le reazioni, i comportamenti e le manifestazioni sintomatologiche da lui segnalate, vanno anche lette come traduzioni dell’esperienza traumatica le cui costellazioni difensive tendono ad arginare la risonanza emozionale di accadimenti devastanti ed a rendere più sopportabile una sofferenza che attacca il diritto di esistere.
A tale proposito è interessante la posizione segnalata da Kalsced (2001) che, lavorando sul trauma, sottolinea che le difese messe in atto, per quanto alla base di serie psicopatologie, producano anche le sole risposte che permettono alla vita di continuare: esse nella loro duplice valenza di tutela e persecutorietà ricalcano lo stesso doppio volto della seduzione-aggressione caratterizzante l’esperienza dell’abuso.
Come si legge in un precedente lavoro sul tema (Lucariello – Sarno 2003) , rivisitando il pensiero di Kalsced “queste strategie difensive dai caratteri diabolici contrastano e dis-integrano legami e connessioni, lavorando per disconnettere e scindere mente-affettività, pensiero-immagine, presentando i caratteri del sadismo e della brutalità più intensi di qualunque aggressore esterno, pur garantendo la continuità della vita”.
Accade, infatti, che nel trauma dell’abuso, la vita si inaridisce ed il sé costretto a rinunciare alla Relazione che è la sua stessa essenza.
Non è un caso che ciò che appare fortemente compromessa nei bambini abusati è la loro capacità di godere ed accogliere, risultato della colpa legata al loro sentirsi indegni che si condensa in immagini svilenti e negative di un sé cattivo ed anormale.
E’ sembrato interessante (Lucariello-Sarno 2003) paragonare la condizione del bambino abusato a coloro che hanno vissuto lutti speciali, lutti in cui le drammatiche ed improvvise circostanze che hanno portato alla perdita di una persona cara, rendono più faticosa l’elaborazione del dolore per chi rimane.
Si tratta di quelle situazioni, ben illustrate nel saggio di Fausta Ferraro, Il Trauma nella teoria psicoanalitica(1992) in cui una figura di rilievo affettivo viene improvvisamente a mancare all’interno di eventi che stabiliscono istantaneamente il confine vita-morte, impedendo ai familiari di ricostruire l’esatta dinamica degli avvenimenti che hanno segnato la scomparsa improvvisa della persona cara.
Si legge nell’articolo citato (Lucariello-Sarno 2004) : “L’autrice rileva che nei lutti speciali una figura significativa scompare improvvisamente per accadimenti che non rendono possibile una puntuale ricostruzione dei fatti legati alla morte e che di conseguenza è impedita la ritualità che accompagna il commiato dalla persona amata e la conseguente elaborazione che nello spazio e nel tempo del rituale crea la cornice in cui possono trovare sistemazione, vissuti ed emozioni che costituiscono il corteo interno che fa da ponte alla dolorosa separazione .In molte di queste persone, vittime di simili esperienze traumatiche, è come osserva l’autrice, presente la fantasia che un giorno sia possibile rivedere la persona cara unitamente al bisogno di allontanare dalla memoria l’evento, come se il ricordo dell’evento luttuoso potesse magicamente impedire la fattualità di un tale desiderio. In questi casi, come nell’abuso, viene a mancare nella vittima la chiarezza di ciò che è accaduto e l’incertezza tende ad ingigantire l’effetto del trauma. L’oggetto si è come dissolto in entrambe le vicende umane, ma non il suo desiderio che diventa anelito di sicurezza con il possibile rischio di un funzionamento alterato nell’organizzazione dell’Io”.
Queste riflessioni sollecitano ulteriori considerazioni, a fronte di possibili raffronti con altre esperienze limite, sulla specificità di questo trauma in cui si alternano inversioni nei percorsi che accompagnano le tappe della crescita, distorte ed appesantite dalla intrinseca ambiguità e non chiarezza con cui l’accadimento traumatico si organizza.
Se pensiamo al riguardo alla lezione di Bion (1962) sullo sviluppo della mente del neonato, come fattore evolutivo che si costruisce anche dall’interazione con la mente materna, contenitore di contenuti mentali intollerabili ed insoliti per il bambino, si può comprendere il sovvertimento che avviene nella mente quando l’intrusione di eventi destabilizzanti conducono a cambiamenti di rotta dei processi deputati alla maturazione.
Si ricorda in merito che il bambino, non disponendo inizialmente di un registro di significati cui fare riferimento, alla comparsa di stimoli nuovi sia esterni, sia interni, richiede una presenza rassicurante che traduca, chiarisca e significhi ciò che accade dentro o fuori di lui. (Bion 1962)
Gli studi di questo autore a tal proposito rilevano che ciò che è percepito dal bambino come angosciante o temibile, filtrato e risignificato dalla mente materna, viene riassorbito e collocato in un sistema di significati che gradualmente si sedimentano in lui ed a cui può ricorrere per comprendere e affrontare l’esperienza del mondo.
Ora nell’abuso si determina il ribaltamento di quel processo che allaccia e collega i contenuti della mente dell’adulto e del bambino: non è il bambino che può affidarsi ad una mente adulta per iniziare a costruire dei significati, ma è l’adulto che tratta la mente del bambino come serbatoio in cui proiettare contenuti interni insoluti. Tali nuclei non metabolizzati e digeriti si condensano in corpi estranei che si incistano nel tessuto interno con modalità di non assimilazione ed elaborazione dentro un circuito che coinvolge a livello interpersonale e probabilmente transgenerazionale abusante-abusato (G.Guasto 1998).
In questo senso quanto minori sono le capacità rappresentative ed elaborative del bambino, tanto più gravi sono le conseguenze del trauma-abuso.
Le considerazioni sul tema sollecitano ulteriori riflessioni sul successivo percorso giudiziario in cui il bambino, eventuale vittima di abuso, è coinvolto.
Tale versante si innesta su quello personale quando la segnalazione, la denuncia e la presa in carico del minore, impongono alla Giustizia la sua testimonianza nella forma dell’audizione protetta, prevista con la Legge sulla “Violenza sessuale”(n. 66 del 1966).
E’ fondamentale sottolineare che questa condizione richiede serietà, specificità, professionalità, esperienza e competenze precipue, avendo l’audizione protetta un itinerario di operazioni tecniche da non confondersi con il colloquio clinico, con il percorso psicodiagnostico o psicoterapeutico in senso stretto.
Il termine audizione protetta, come ho segnalato in un lavoro sul tema, (Lucariello,2002), indica la necessità di armonizzare ed integrare compiti giudiziari, orientati all’accertamento della verità, e quelli diretti alla protezione del bambino.
Il duplice e complesso livello che emerge durante l’intervento è costituito dal fatto che le sue fasi sono orientate, da un lato all’accertamento dei fatti per i quali c’è un’imputazione contro qualcuno, e dall’altro a proteggere il minore da eventuali ulteriori traumi istituzionali che si aggiungerebbero a quelli già eventualmente subiti in precedenza.
Il tecnico, quindi, nella cornice istituzionale, che è nella maggior parte dei casi quella del Tribunale Penale, dovrà sia sollecitare il minore a rievocare un passato doloroso, rendendolo esplicito, comunicabile e comprensivo e, contemporaneamente garantire la sua stabilità, serenità e rispetto della sua persona.
I bambini che arrivano all’incontro sono, per la maggior parte dei casi, sconosciuti all’operatore che contattono in quella sede e per la prima volta e con cui dovranno interagire, riesaminando fatti ed accadimenti intimi e segreti della loro storia personale.
L’incontro con il tecnico, per quanto si svolga in uno spazio protetto, sia il Tribunale Penale o altra struttura attrezzata adeguatamente, è comunque un incontro collegiale, nel senso che tutto ciò che accade in quello spazio è video-registrato e seguito in contemporanea da giudici, avvocati, consulenti nominati dalle parti e dallo stesso imputato.
Questa situazione crea un clima molto diverso da quello in cui solitamente lavora chi si occupa di professioni d’aiuto: in questo caso c’è la presenza concreta dell’altro, che osserva, che può porre domande, avanzare richieste di approfondimenti su particolari che rientrano nella vicenda del bambino; si determina, perciò, un’atmosfera densa di variabili di difficile gestione che interferiscono sull’andamento del percorso e creano spesso nel piccolo testimone disagio, disorientamento e paura.
Quando si ascolta il bambino durante le fasi dell’audizione protetta si deve contenere la sua ansia e anche la propria, dosando le parole, le domande, tollerando smarrimenti, incertezze ed imprecisioni, rispettando i suoi tempi all’interno del tempo-spazio previsto per operazioni di questo tipo.
L’operatore che conduce l’intervento deve conoscere le competenze ed i livelli di sviluppo propri di ogni fase evolutiva, riflettendo sulle capacità logico-cognitive, verbali, affettive e sociali del bambino.
Rispetto alle capacità verbali, i più piccoli si esprimono con racconti solitamente brevi anche se accurati specie se viene offerta loro la possibilità di fare affiorare spontaneamente l’evento da ricordare; pertanto è opportuno che a ciascuno sia consentito di esprimersi liberamente senza interruzioni, rispettando le modalità espressive ed i tempi di ognuno. (Goodman, Bottoms, Rudy 1991)
Come osserva Goodman (1980-1987) la capacità di ricordare é maggiore se il bambino è stato protagonista in prima persona nell’evento; al contrario se è stato spettatore, è più probabile che emergano nelle sue rievocazioni imprecisioni, vaghezze e distorsioni. (Cole, Loftus 1987; Goodman, Aman,1987)
Queste ultime, comunque, sono sempre possibili in quanto la memoria è un processo che ricostruisce e non riproduce fedelmente la dinamica degli eventi; essa è, infatti, influenzata da variabili ed elementi esterni ed interni che possono indurre ad inserire dati non presenti in precedenti rievocazioni.
Gli studi sull’argomento riferiscono che i bambini sono capaci di descrivere gli eventi e resistere alla suggestione da parte degli adulti purché ci sia competenza e capacità nel porre domande da parte di chi conduce il colloquio (Goodman, Clarke-Stewart 1991); tuttavia è indubbio che essi debbano possedere competenze specifiche sviluppate per riferire i fatti, quali l’attenzione, la comprensione delle regole e delle convenzioni conversazionali, distinguendo verità e bugia.
Un punto importante su cui riflettere è chiedersi se il bambino, chiamato a rievocare eventi traumatici, sia anche nella condizione di poterlo fare.
La Di Blasio (2001), studiando il rapporto tra trauma-stress e memoria, sottolinea che i bambini senza rilevanti sintomi da stress post-traumatico, producono al momento delle dichiarazioni, racconti più puntuali e precisi di coloro con evidenti disturbi; quest’ultimi, osserva giustamente l’autrice, richiedono cure e sostegni evitando che siano coinvolti in esperienze traumatiche che rendono, tra l’altro, incomplete e vaghe le loro testimonianze.
In questi casi, infatti, l’esito più probabile è che l’audizione non si prospetti come momento di elaborazione di un’esperienza amara, ma evento in cui il bambino sperimenta ulteriore fallimento e frustrazione.
Al riguardo ritengo utile suggerire una pratica che attualmente è spesso disattesa: l’operatore che segue psicoterapeuticamente il bambino dovrebbe dare indicazioni precise sull’opportunità di esporlo in un determinato momento all’audizione protetta. E ciò sia nell’interesse del minore sia di quello della giustizia
Quando ci si appresta all’ascolto del minore si deve, infatti, sempre accuratamente considerare come si senta un bambino, posto in un luogo per lui insolito e sconosciuto, a contatto con una persona estranea con cui interagire, esposto a ripercorrere esperienze penose ed insolute dentro di sé, il cui ricordo riattiva dolore e vergogna.
Se si sono verificati diversi interrogatori precedenti l’audizione protetta, egli può essere preso dal timore di non essere creduto e questo senso di sfiducia ed impotenza verso l’adulto può fargli, tra l’altro, vivere l’operatore come una persona punitiva che può penalizzarlo per le azioni indegne di cui si sente responsabile.
Il bambino può, inoltre, sentirsi confuso e sorpreso in quanto gli si chiede durante l’audizione di discutere senza riserve di eventi particolari e segreti di cui, invece, non si parla liberamente al di fuori del contesto in cui si trova.
Tutti questi pensieri ed i sentimenti ad essi collegati possono acuirgli il timore di essere diverso dagli altri per ciò che gli è capitato e che deve comunicare a chi, trascorso quel momento, non vedrà mai più.
Interessanti studi e ricerche sui comportamenti dei bambini rispetto all’età e al sesso, ravvisano una differenza nei comportamenti e nelle loro reazioni rispetto a queste variabili: i bambini più piccoli appaiono più intimoriti dal sistema giudiziario e le vittime d sesso maschile più riservate rispetto a quelle di sesso femminile a rilasciare dichiarazioni sull’abuso in quanto vivono la rivelazione con più ansia e vergogna. (Kempe1984)
Nei ragazzi più grandi, inoltre, più consapevoli delle implicazioni e delle conseguenze delle loro rivelazioni, si possono verificare omissioni, vaghezze o silenzi su notizie ed informazioni specifiche, per riserbo o per proteggere le persone cui sono legati affettivamente, specie se si tratta di esperienze consumate in ambito familiare.
E’ chiaro che tale consapevolezza amplifica ambivalenze, sentimenti di colpa ed il desiderio di concludere il più velocemente possibile l’audizione, percepita come situazione carica di intense incertezze emozionali.
A questo proposito c’é, infatti, un ulteriore elemento da considerare: quali sono le motivazioni che possono spingere un minore a parlare?
Questo interrogativo apre un ampio discorso che sarà approfondito in un successivo lavoro, ma che ci impegna a riflettere su quali siano gli effettivi vantaggi della sua testimonianza e quali gli svantaggi ed i rischi in termini di insicurezza e destabilizzazione; argomenti questi che, ad avviso di chi scrive, vanno attentamente esaminati allo scopo di trovare le migliori opportunità e strategie per ascoltare, comprendere ed operare di conseguenza.
Bisogna infine considerare, quali fattori che possono agevolare o non la rivelazione, non solo il grado di competenza e sviluppo del bambino, ma anche il supporto maggiore o minore che riceve dalla famiglia che può sostenere, accogliendo e rinforzando sentimenti di credibilità e fiducia, o limitare e disconfermare il bambino sul piano dell’affidabilità.
Gli studi sviluppatisi per analizzare modalità e tecniche per il colloquio dell’audizione protetta rimandano a quelli sulla Intervista Cognitiva elaborata negli USA (1988-93 Geiselman.), il cui protocollo è mirato all’obiettivo di diminuire gli effetti della suggestione.
Essa prevede una parte preliminare, in cui al bambino viene spiegato il compito che gli si richiede, ed un intervista vera e propria con cui lo si sollecita a rivivere il contesto ambientale in cui é accaduto l’evento ed i sentimenti provati.
Durante l’incontro é importante tener conto del fatto che gli eventi centrali di una situazione rievocata sono ricordati più a lungo, al contrario dei dettagli marginali che tendono ad essere dimenticati più facilmente col passar del tempo.
Rudy e Goodman (1991) sottolineano che nel colloquio, che deve essere svolto lasciando il bambino libero di parlare, sono da privilegiarsi domande aperte, mentre quelle dirette, a volte obbligatorie, devono evitare suggestione ed essere formulate attraverso un lessico ed una costruzione della frase che risponda evolutivamente ed individualmente alle capacità cognitive ed emotive del soggetto.
In tutto il lavoro é fondamentale la disponibilità all’ascolto, l’incoraggiamento e la valorizzazione del minore, senza interrompere la rievocazione degli avvenimenti e procedendo con domande ampie; ulteriori chiarimenti e puntualizzazioni vanno richiesti in una fase successiva, riprendendo elementi ritenuti importanti che questi ha riferito durante il racconto libero. (Goodman, Rudy 1991)
L’ingrediente centrale che forma e modella l’intervento è la capacità di costruire un clima sereno ed un rapporto in cui il bambino si senta ascoltato e riconosciuto, riconosciuto nella difficile situazione che vive. Così come è importante trasmettergli l’idea che non ci si aspettano da lui risposte giuste o sbagliate, ma che l’interesse è rivolto ad accogliere ciò che eventualmente gli è capitato.
Durante l’audizione è previsto l’uso di materiale, fogli, pastelli, matite e bambole che possono agevolarlo ad esprimersi non solo attraverso le abilità verbali; le bambole in particolare sono considerate da alcuni autori oggetti stimolanti e suggestivi di fantasie sessuali. (Boat, Everson 1988, Cohn1991); su tale rilievo, tuttavia, i dati finora disponibili da ricerche sul campo sono ancora incerti e non completamente confermati
Un ultimo pregnante elemento da considerare riguarda la conclusione dell’incontro che significa restituire al bambino l’esperienza in termini di significato.
Bisogna in questo senso interrogarsi su come rendere questa esperienza meno dannosa consegnando un senso a tale momento, altrimenti, per quanto tecnicamente l’operatore possa svolgere alla perfezione il suo mandato sul piano professionale, rispondendo agli obiettivi della Legge, rischia di lasciare in secondo piano compiti di protezione e tutela che restano per le Istituzioni i compiti primari rispetto per l’infanzia.
Come si è osservato in proposito (Lucariello 2002) : “ Come proteggere veramente il minore?E poiché non è possibile aggirare l’ostacolo, cioè la protezione ad oltranza, che confermerebbe vissuti di impotenza e rassegnazione, è stato fondamentale assumere nella mia mente questa esperienza come un’occasione di distanza- riscatto da un evento devastante, l’inizio di un cammino verso la capacità di elaborare emotivamente il trauma prendendone le distanze. Credo,infatti,chequesto intervento che si svolge dopo il percorso diagnostico possa in qualche modo rappresentare un tentativo di elaborazione dell’esperienza traumatica. Ciò è sicuramente più probabile quando è possibile stabilire un piano di collaborazione con chi è preposto al processo diagnostico e può offrire a chi opera successivamente elementi in ordine al grado di rischio della procedura giudiziaria, come potenziale ri-attivatore del trauma e la conoscenza delle risorse che un bambino può mettere in campo per superarlo. In questo senso anche l’audizione protetta può diventare un contenitore di valenze anche terapeutiche in quanto promozione esso stesso di cambiamento, inizio di un distacco dal passato. In questo senso l’intervento non si configura come esperienza che rigira il coltello nella piaga, ma rappresenta un passo per prendere le distanze dal passato facendo esperienza di sentimenti più sani e produttivi”
Queste riflessioni indicano che anche l’audizione protetta può prospettarsi come promozione di cambiamenti mirati ad aiutare il bambino a sperimentare sentimenti di fiducia e di credibilità nei confronti del mondo adulto: esperienza di ripresa, quindi, prima ridefinizione dell’esperienza dentro di sé, con il sostegno di una persona che lo ascolta e lo accoglie.
E’ importante, tuttavia, ricordare che in ogni vicenda traumatica c’è da considerare l’accadimento in sé e la risonanza emozionale che esso ha generato; nel senso che ogni trauma produce una situazione traumatica in quanto quella singola esperienza si amplifica e pervade l’interno, coinvolgendo aspetti, personaggi e situazioni della storia dell’individuo.
Ciò significa che alla reale comprensione del trauma non si arriva mai completamente se ci si sofferma alla sola categorizzazione di ciò che è accaduto; per capirlo e renderlo esplicito è necessario affiancare agli eventi fattuali, la condizione della persona, la qualità della vita in quella fase storica dell’esistenza, le modalità di rappresentazione interna e quelle delle relazioni stabilite dal soggetto con le figure di riferimento.
Il trauma, infatti, per quanto proviene dall’esterno inizia immediatamente a diventare qualcosa di intenso dall’interno con esiti che oltrepassano l’evento stesso; esso non è solo un presente che irrompe dalla porta, ma è anche un prima che entra di lato, si presentifica e si predispone come attivatore di eventi post-traumatici, percorrendo strade e percorsi suoi propri.
Tutto questo noi impattiamo in una situazione di ascolto protetto con la particolarità che si deve, durante l’intervento, prescindere da tutto questo e lavorare con il bambino sui fatti; fatti che non potranno mai essere capiti se scissi dalla risonanza e dalla particolare esperienza interna che li ha incanalati ed assimilati in quel modo individuale per ciascuno.
Questo secondo aspetto, che non costituisce contenuto dell’audizione, rinforza la difficoltà del bambino e dell’operatore che devono districarsi in livelli delicati ed interconnessi che rischiano di rimanere separati e, quindi, insoluti, se non si da spazio nella nostra mente ad un ascolto che accolga la complessità del trauma, le sue articolate trame e le conseguenti attivazioni sul piano emozionale e comportamentale.
Si vuole con ciò ribadire quanto sia arduo avvicinare il minore nella fase dell’audizione protetta, sollecitandolo necessariamente a comunicare accadimenti la cui essenza non può prescindere dalla bufera interna ad essi collegati.
Ciò spiega gran parte della diffidenza, timidezza, titubanza, mancanza di precisione riscontrate nelle testimonianze dei bambini, le loro incertezze, il non ricordare o il non essere espliciti nella rivelazione.
In base all’esperienza maturata in anni di lavoro con il bambino coinvolto in percorsi giudiziari ed in particolare nell’audizione protetta, credo che ciò che possiamo consegnarli come significato dell’intervento, sia assumere dentro di noi questo momento come primo tentativo, nel qui ed ora, di saldare la frattura che ha interrotto il suo processo di affidabilità verso il mondo, attraverso il percepirsi accolto, ascoltato e riconosciuto.
E’ indubbio che questo tema meriti ulteriori riflessioni ed approfondimenti ricercando tutte le possibili soluzioni per raccordare il più possibile esperienze esterne con quelle interne, tentando di mettere insieme esigenze giudiziarie con il vissuto angoscioso del bambino in uno spazio definito e ridotto e con tempi esterni ben diversi da quelli interni della piccola vittima.
Questo intento deve sostenerci a lavorare ancora su questo fronte ed esperire le migliori opportunità e garanzie affinché sia autenticamente e non solo illusoriamente protetta la testimonianza del bambino.
Per concludere queste osservazioni è indispensabile riflettere sull’importanza e sul significato dell’ascolto del minore, importanza che esso riveste in tutte le fasi che accompagnano il bambino dall’inizio della sua presa in carico fino a quella dell’audizione protetta.
Esso costituisce un impegno mentale e relazionale tutt’altro che semplice e scontato (C. Foti 2003) che ci impone di fare i conti con quegli aspetti di presunzione, illusione, egocentrismo ed autocentrismo di cui spesso il nostro ascolto è infarcito; aspetti che possono impedirci di accogliere dimensioni appartenenti all’alterità dell’altro e di liberare lo spazio mentale da contenuti personali che sbarrano la strada a ricevere i segnali del dolore e dell’imprevedibilità dell’esistenza.
Scrive al riguardo Foti : : “La presunzione dell’ascoltatore semplifica e banalizza l’impegno mentale dell’ascolto, negando o sottovalutando pesantemente le risorse psichiche indispensabili per ascoltare: una certa quota di energia psico-fisica, una mente sufficientemente libera da conflitti ed ansie e disposta a porsi in posizione di passività/recettività, una certa capacità di riconoscimento/ rispetto dell’alterità e dell’essere persona dell’interlocutore, una discreta disponibilità a rapportarsi ai sentimenti propri ed altrui, a mettersi dal punto di vista dell’altro tenendo a bada i sentimenti gli atteggiamenti giudicanti, una sufficiente elasticità nell’aprirsi al nuovo e nel ristrutturare preconfezioni, schemi preesistenti e sistemi d’informazione acquisiti, ecc.. l’idea riduttiva in base a cui l’ascolto non sarebbe un impegno costituito da operazioni mentali complesse ed evolute, bensì un’attività prevalentemente intellettiva, priva di implicazioni relazionali ed emotive; la convinzione di essere in assoluto un buon ascoltatore senza la percezione dei problemi e delle difficoltà che derivano inevitabilmente dal compito di ascoltare il disagio di un altro essere umano; l’incomprensione e il rifiuto a mettersi in discussione, a formarsi in modo specifico, a supervisionare la propria attività sociale di ascolto: sono atteggiamenti di presunzione che accompagnano e generano inevitabilmente abusi rilevanti nell’ascolto di qualsiasi bambino in qualsiasi contesto(a maggior ragione poi se questo bambino è coinvolto in un possibile abuso sessuale”.
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